Molto più del pittore, che produce le sue immagini nel tempo, e in questo tempo può decidere di cambiare strada e anche di tornare sui suoi passi, il fotografo che voglia produrre un’immagine sembra obbligato a pensarla in anticipo, in tutti i suoi dettagli, prima dello scatto, che cala come una ghigliottina a separare le intenzioni dai risultati.
..Una delle differenze capitali fra pittura e fotografia sarebbe dunque la diversa dislocazione del lavoro di composizione: dove il fotografo è tradizionalmente costretto ad anticipare se non tutte, la maggior parte delle sue decisioni.
Nel suo Nell’occhio del pittore, Giuseppe Di Napoli sostiene in modo convincente che la previsualizzazione, che lui però non chiama così, e neppure parla di fotografia, è una necessità anche per il pittore.
..Lo studioso del visuale ritiene che la trasfigurazione del veduto in forma avvenga già nell’occhio del creatore di immagini, prima ancora che egli inizi a tracciare in qualche modo i suoi segni. Che il suo sguardo selezioni già, nella scena reale che ha di fronte, gli elementi che possono diventare immagine, già sapendo come ciò avverrà.
Più ancora che una elaborazione mentale, Di Napoli sembra proprio alludere a una specie di sapere dell’occhio, un pensiero visivo che ricorda le tesi di Rudolf Arnheim, ma molto più consapevole di sé: il creatore di immagini “vede dentro il suo vedere”.
La pittura è fotografia coi pennelli, la fotografia è pittura con le lenti, sarebbe questa la conclusione? Tutta una questione secondaria di strumenti, perché quel che conta è la visione del veggente?
No, non sottoscrivo. Proprio perché non esiste visione che non sia in partenza orientata ai propri strumenti, direi al contrario che le strade del pittore e del fotografo si separano ancora prima di quanto pensavamo: già nello sguardo che i due (o la stessa persona nelle due modalità) gettano sul mondo.
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Noi conosciamo la differenza fra quei due rapporti. Sappiamo che ogni tratto che il pittore traccia sulla tela, anche quando dipinge dal vero, è passato per il filtro del suo cervello, per una memorizzazione e successiva restituzione mentale.
Mentre sappiamo che ogni segno che la fotocamera deposita sulla superficie sensibile non passa per quel filtro.
Passa attraverso altri filtri, i meccanismi della fotocamera appunto, sui quali la mente umana interviene due volte: nel momento in cui progetta i programmi automatici della fotocamera per creare immagini in un certo modo e non in un altro; e nel momento in cui, grazie alla maggiore o minore flessibilità di quei programmi, dà istruzioni specifiche per ogni singola registrazione di immagini.
L’occhio del pittore pre-vede un processo che sa essere in gran parte controllabile e modificabile dalla sua volontà (i margini di incontrollabilità riguardano la resistenza e i limiti dei pigmenti, del pennello o matita, dei supporti). In questo procedimento, non c’è alcuna eccedenza casuale: bell’immagine finita confluisce solo quello che l’occhio del pittore ha selezionato.
Mentre il fotografo deve pre-vedere anche il funzionamento di un meccanismo che non è in grado di controllare del tutto, i cui criteri di strutturazione dell’immagine sono in buona misura pre-impostati dai progettisti. Ma soprattutto è un processo che include una notevole dose di imprevedibilità, di caso, di eccedenza del raccolto rispetto alla volontà di raccogliere.
In questa presenza di più “sguardi”, uno dei quali (quello dei progettisti) congelato in meccanismi; e nella ineliminabile eccedenza del prelievo rispetto a qualsiasi possibile pre-visualizzazione sta, a mio modesto avviso, la differenza fotografica.
Be’, vive la différence, no?
Tratto dall’articolo di Michele Smargiassi
https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/…/viva…/
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